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Le badanti a Como: custodi della famiglia

La badante è una di casa, si occupa dei lavori domestici, accudisce, consola. Ma è anche l’estranea di famiglia: e la dedizione ai figli e ai genitori dei ” signori” non sempre va di pari passo con il riconoscimento dei diritti.

Per vent’anni le badanti sono state le invisibili tra gli invisibili. Di loro non abbiamo voluto sapere nulla: né chi fossero, né da dove venissero, né come facessero a fare il loro lavoro. Eppure non è per niente facile essere una badante convivente. Essere continuamente “l’estranea di casa”, e “una di casa”. Essere colei che si occupa della casa, del corpo e dell’anima.

Colei che nutre, cambia, lava e medica; e colei che coccola, consola, custodisce. Le braccia a volte non bastano. Serve il cuore. Badare è un verbo particolare, che sta a metà tra lavorare e amare. Da una badante ci si aspetta non solo che vesta, cucini e cambi le medicazioni, ma anche che sia gentile, disponibile, amichevole, che dia affetto, calore, conforto alla persona che le viene affidata.

Talvolta questo coinvolgimento affettivo è l’esito naturale di un rapporto intimo, di condivisione di tempo, di spazi, di frammenti di vita quotidiana. «Ana non è per me solo la persona che mette in fila le pastiglie» racconta Matilda , una signora invalida. «Lei è soprattutto la testimone dei miei pensieri più profondi, colei che lenisce le mie paure, accarezza i miei sogni quando dormo, custodisce i pochi ricordi che sopravvivono alla mia malattia e li consegna ai miei figli». E infatti, non di rado, tra chi offre le cure e chi le riceve nascono delle relazioni molto profonde, indissolubili.

Altre volte però il coinvolgimento affettivo è preteso, reclamato, imposto dall’alto. «A tate e badanti si chiede di prendersi cura degli anziani come fossero i loro genitori, o dei bambini come farebbero con i propri figli. Ci si aspetta delicatezza, premurosità, affetto, dedizione. E poi tempo: i giorni, le notti, i weekend, le feste, le vacanze. Raramente si tiene conto che questo tempo, e questo affetto, è un furto alle loro vite e alle loro famiglie». Lo racconta anche Irina, una donna ucraina di 55 anni, mentre con le mani segnate dalla fatica piega gli asciugamani.

Potrebbe capitare allora di scoprire che, per molte badanti, il lavoro in Italia rappresenta non solo un mezzo per raccogliere denaro, ma anche, soprattutto, uno strumento di riscatto, di rivincita, in sostanza di emancipazione personale e femminile. Oggi, a differenza delle donne moldave o ucraine che salivano su un pulmino venti anni fa, le “nuove badanti” sono portatrici di esperienze diverse: sono cittadine di paesi membri dell’Unione Europea, come Romania, Bulgaria e Ungheria, hanno con sé una consapevolezza maggiore della propria condizione e un livello di istruzione medio-alto. Vengono per restare: cercando di assimilare tutto quello che riescono sull’Italia attraverso i racconti degli anziani di cui si prendono cura, desiderano integrarsi, sentirsi meno straniere.  Se si dedicano agli anziani, ai bambini, ai più fragili non è sempre, non solo, per vocazione ablativa, ma perché il lavoro è l’unica occasione di riscatto. Proprio come per tante di noi.

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